Quattro secoli di Aceto Balsamico Giusti: a Napoli il viaggio dei sensi tra tradizione e cucina contemporanea

Quattrocentoventi anni di saper fare, una famiglia alla 17ª generazione e un solo filo conduttore: custodire la memoria delle antiche acetaie modenesi e portarla dove la convivialità è linguaggio quotidiano. A Napoli, tappa simbolo del tour celebrativo, l’Aceto Balsamico di Modena Giusti ha incontrato la cucina partenopea in un dialogo di contrasti e armonie che racconta l’Italia con il gusto.
Nel cuore di Spaccanapoli, fra profumi di pomodoro, mare e basilico, la maison più antica di Modena ha presentato le sue diverse espressioni di balsamico, trasformandole in chiavi di lettura per interpretare la tavola campana. L’evento alle Mimì alla Ferrovia è stato il capitolo napoletano di un itinerario che, dopo Roma, Firenze, Verona e Torino, proseguirà nel 2026 verso Palermo e Milano: un percorso che unisce piazze, mercati, osterie e grandi indirizzi, per diffondere la cultura di un condimento nato in botte e cresciuto nel tempo, fino a diventare ambasciatore del made in Italy nel mondo.
Protagonista della serata, lo chef Salvatore Giugliano, erede di una storica famiglia di ristoratori, ha costruito un menu “inclusivo” – nel senso più luminoso del termine – capace di accogliere diluito, ridotto, goccia dopo goccia le diverse anime del balsamico Giusti. Al suo fianco, il CEO Claudio Stefani Giusti ha raccontato come ogni etichetta nasca da un patrimonio di botti secolari, da gesti ripetuti e perfezionati, da un’idea di qualità che ha portato l’azienda alla tutela IGP e alla valorizzazione internazionale (con gli Stati Uniti oggi primo mercato). «La nostra è una storia da condividere», ha spiegato, ricordando che a Modena una casa museo gratuita e prenotabile accompagna i visitatori in dieci sale tematiche: un viaggio fra la “botte A3” che nel XIX secolo percorse l’Europa con un balsamico novantenne, il medagliere della Belle Époque e la ricetta del 1863 di Giuseppe Giusti, manifesto di stile e rigore.
Il percorso: tipicità campane e balsamico, tra gesti antichi e nuove letture
La scelta di Napoli non è casuale: la cucina campana è sempre più aperta e curiosa, capace di fare da palcoscenico a contaminazioni intelligenti senza tradire la propria identità. Così la caprese si accende di una riduzione densa, che sottolinea la dolcezza del pomodoro e accompagna la sapidità della mozzarella; la tartare di gambero trova brillantezza in un filo di balsamico giovane, calibrato per non coprire lo iodio; il peperone ‘mbuttunato scopre nel tocco agrodolce una verticalità nuova. Sorprendono i taco bao alla genovese, dove la complessità del sugo incontra la profondità di un invecchiato in rovere, e il crocchè di patate con crudo di spigola, alici, provola e zucchine alla scapece, che dialoga con una trama più vibrante, quasi agrumata, del balsamico a minor tempo in botte.
Il momento più audace arriva sul dolce: un babà lucido di bagna, completato da una pennellata di Aceto Balsamico di Modena in scorza fine accanto alla crema pasticciera e alle percoche. Il risultato è una nota di testa aromatico-speziata che amplifica il burro e la vaniglia e pulisce il palato: un finale controintuitivo, e proprio per questo memorabile. È il manifesto di una tendenza: usare il balsamico non come decoro, ma come ingrediente narrante, capace di accorciare le distanze tra Nord e Sud con il solo linguaggio del gusto.

Lo scrigno e la memoria: Pavarotti, le botti e la cultura di un saper fare
Tra i simboli in mostra anche lo Scrigno: il cofanetto in legno ideato nel 2006 su richiesta di Luciano Pavarotti per una serata di beneficenza della sua Fondazione. All’interno, la Collezione Storica completa nel formato “Champagnotta” e cinque rarità invecchiate in singole botti di Rovere, Ciliegio, Castagno, Gelso e Frassino. Non è solo un oggetto da collezione: è una lezione tattile di materia e tempo. Ogni essenza trasferisce sfumature diverse – speziatura, dolcezza, tannino, setosità – e racconta come il balsamico sia un prodotto culturale prima ancora che gastronomico, un prisma che riflette geografie, climi, boschi, mani.
Quattro secoli di storia non sono un numero da anniversario, ma la somma di micro-rituali: la scelta del legno, i travasi lenti, la pazienza del controllo, l’umiltà del silenzio con cui si ascolta la botte “parlare”. Giusti ha reso questa esperienza una narrazione pubblica – visite guidate, archivi, percorsi didattici – perché l’aceto balsamico non resti un segreto per pochi. «La tradizione vive quando incontra le persone», ricorda Stefani Giusti, sottolineando come lo staff del museo abbia un’età media di poco superiore ai 30 anni: un segnale che la nuova generazione cerca radici vere da reinterpretare con sensibilità contemporanea.
Se oggi l’“oro nero di Modena” è un linguaggio comune, lo si deve anche al lavoro sulla qualità e sulla tutela: dalla codifica del processo – mosto cotto, lunghe maturazioni, batteria di botti decrescenti – alla chiarezza tra IGP e DOP, fino alla diffusione internazionale che ha portato il balsamico oltre i confini del suo distretto, senza perdere identità. A Napoli, tra una forchettata di ziti allardiati e una conversazione su antiche ricette di famiglia, quella identità ha trovato un pubblico naturale: curioso, caloroso, capace di cogliere la finezza dietro ogni goccia.
Il tour continua, ma la tappa partenopea lascia un messaggio netto: l’Aceto Balsamico di Modena Giusti non è solo un condimento; è memoria liquida che illumina il presente. Nel gioco degli abbinamenti con la cucina campana – dal mare crudo alle grandi salse, dai fritti alle lievitazioni – la sua voce diventa corale. E conferma che la gastronomia italiana, quando dialoga con rispetto, sa essere allo stesso tempo rigorosa e inclusiva, antica e innovativa, capace di unire territori diversi in una stessa, inconfondibile armonia.
